LA PSICOLOGIA AMBIENTALE
Secondo la psicologia ambientale, progettisti e architetti non concepiscono solo spazi e luoghi fisici, non costruiscono semplicemente mura. La loro virtuosa missione richiede di scavare nell’intimo umano per poter ideare spazi dell’anima.
Il senso dell’abitare è legato allo stare in un luogo. L’ etimologia propria del termine abitare si riferisce, infatti all’ "avere consuetudine in un luogo", non è quindi solo uno stare, un essere chiusi all’interno delle mura domestiche, ma un avere consuetudine con i luoghi, uno stare nel tempo.
Il racconto di noi stessi e della nostra storia (intima, di famiglia, di comunità) abbraccia ed entra di prepotenza negli spazi rendendoli nostri, apportando ricchezza e conoscenza sull’abitare.
LA CASA COME SPECCHIO DELL'ANIMA
Per comprendere meglio come abitiamo le nostre case dobbiamo porci questa domanda: qual è la mia casa? Per poi interrogarci sul dove e come deve essere: un amalgama di mondo interiore e realtà esteriore.
La psicologia dell’abitare è lo strumento attraverso cui indagare lo spazio fisico della casa come specchio del nostro vissuto interiore, uno spazio mentale, spesso misterioso e frammentato, del quale il più delle volte non abbiamo una visione chiara.
Attraverso questa disciplina la casa può diventare un potenziale strumento terapeutico, lo diventa nei momenti di crisi quando sentiamo il bisogno di fare ordine, pulire, cambiare arredamento e perfino traslocare in un nuovo guscio. In realtà, ciò che cerchiamo di fare, è mettere ordine dentro noi stessi, guarirci.
La casa è dunque soggetto e oggetto di terapia benefica per il singolo, per la coppia, per la famiglia allargata.
Il processo, a volte emotivamente logorante, di costruire casa come il luogo del vivere quotidiano, è intimamente connesso alla costruzione della nostra identità.
Esiste una patologia dell’abitare, che si traduce in una sorta di “mal di vivere” che affligge persone incapaci di abitare la propria pelle e, per questo, vivono la dimensione domestica in maniera passiva, anaffettiva, non curante, indifferente.
Questo comporta una povertà dell’abitare e dà vita a case non funzionali, ultimo anello di una catena che inizia con l’incapacità di ascoltarsi e decodificare i propri desideri.
Spetta agli architetti mettere in campo degli strumenti adeguati capaci di intercettare e riprodurre i bisogni più profondi in forme e volumi.
LA CASA COME RISPOSTA AI BISOGNI DI CHI LA ABITA
La genesi dell’architettura scaturisce dalla necessità di creare un interno sicuro, sia esso in principio una grotta, una capanna o una tenda, in contrapposizione ad un fuori ostile. Un luogo e un riparo sicuro dalle minacce e dai nemici esterni, dove si svolgevano attività simili alle nostre nella sostanza: riposare, aver cura della prole, difendersi e proteggersi come individui e come gruppo. Abitare uno spazio in quel caso aveva significati prettamente primari, oggi invece attribuiamo alla nostra casa una dimensione simbolica e sociale. Con l’evoluzione, la relazione tra spazio e persona è diventata più complessa e profonda, si crea una relazione interpersonale tra noi e la nostra casa che è spesso frutto della proiezione affettiva, antropologica e ancestrale che ci riporta al grembo materno.
L’importanza della casa non risiede tanto nelle mura, quanto nella potenzialità inconscia di sapere accogliere e dare risposta a dei bisogni, e quindi chiedersi “che bisogni ho”?
Sono in molti a non chiedersi più cosa si vuole, cosa piace; è importante, invece, non sottovalutare i propri bisogni e poggiare la prima pietra su un semplice interrogativo: come ci piacerebbe la nostra casa? Per rispondere a questa domanda dobbiamo considerare che il rapporto con il proprio habitat è di natura emotiva. Ciò significa tessere una fitta rete di relazioni olfattive, tattili, sensoriali che ci legano ad un luogo e che si spezza nel momento in cui lo lasciamo.
Non esiste quindi una regola unica, un singolo modello di progettazione in linea con le tendenze del momento, le architetture dell’abitare sono molteplici e multietniche tante quante sono le persone che abitano i luoghi.
Personalizzare uno spazio significa dotarlo di un volto umano, progettare superfici, arredi, scegliere complementi e oggetti che siano portatori di significato; così come rendere vivo uno spazio significa entrare a far parte dei volumi, calpestare la superficie, riempirlo di sé attraverso l’unicità che ci contraddistingue. Un’abitazione è un “iperoggetto” che abbraccia un mondo interiore, oltre che esteriore, intriso di relazioni tra abitante e abitato.
Gli spazi saranno inevitabilmente somiglianti al loro referente umano in quanto l’abitazione e l’abitante sono intimamente legati e reciprocamente vincolati nelle forme dell’architettura e del progetto degli interni.
Come sosteneva Le Corbusier, la casa è una “machine à habiter” e per sua natura assai complessa e in continua evoluzione, si avvicina alla metafora dell’essere umano inteso a sua volta come macchina vivente, anch’essa in continua evoluzione. Il rapporto tra uomo e abitazione è quindi inesauribile e, al tempo stesso, consuma reciprocamente il soggetto e l’oggetto del contendere.
Come scrisse l’architetto Adolfo Natalini: “vivere in casa non è un’ operazione spontanea, naturale, ma richiede una grossa dose di cultura, di raziocinio e di poesia. Ogni casa si struttura come la proiezione spaziale dei desideri, delle ambizioni, delle necessità e delle storie dei suoi abitanti.
La casa diventa un’ immagine: il ritratto di chi la usa. E come complesso di spazi, oggetti, immagini e intenzioni, si sovrappone agli inquilini, modificandone il comportamento”.
"La casa è la metafora del nostro mondo interiore. Dal modo che abbiamo di abitarla capiamo il legame profondo che ci lega con il nostro inoconscio.
Troppo piena o troppo vuota, maniacale o disordinata, la casa parla di noi e della nostra vita.
Basta entrare in casa per vedersi".
(Donatella Caprioglio)